
Il viaggiatore (Iperborea, I ed. 1991, trad. Gino Tozzetti) è una raccolta di racconti, saggi e poesie, pubblicati tra il 1947 e il 1955 a Stoccolma, conosciuta in lingua originale come Dikter, noveller, prosafragment. Non si tratta di una raccolta omogenea, le vicende non sono collegate tra loro: si narrano le storie di personaggi diversi, in epoche diverse e in luoghi diversi, e ogni racconto è scritto con uno stile ben preciso, che lo identifica dentro tutto l’insieme. Il fil rouge che lega i brevi capolavori di questo libro è l’inquietudine, la profonda angoscia, destinate a condensarsi in un’intima tragedia, di proporzioni volta per volta diverse, a seconda del racconto.
Il
viaggiatore di Stig Dagerman
di Irene Lami, Università di Milano
Il
viaggiatore (Iperborea, I ed. 1991, trad. Gino Tozzetti) è una raccolta di
racconti, saggi e poesie, pubblicati tra il 1947 e il 1955 a Stoccolma,
conosciuta in lingua originale come Dikter, noveller, prosafragment. Non si
tratta di una raccolta omogenea, le vicende non sono collegate tra loro: si narrano
le storie di personaggi diversi, in epoche diverse e in luoghi diversi, e ogni
racconto è scritto con uno stile ben preciso, che lo identifica dentro tutto
l’insieme. Il fil rouge che lega i brevi capolavori di
questo libro è l’inquietudine, la profonda angoscia, destinate a condensarsi in
un’intima tragedia, di proporzioni volta per volta diverse, a seconda del
racconto.
Si
va infatti dalla tragedia dell’automobilista che investe per sbaglio un bambino
(Uccidere un bambino), a quella di uno studente costretto ad affrontare
il mutismo di un professore che ha perso la stima per lui (La scacchiera da
viaggio); dalla disperazione che deriva della presa di coscienza di cosa
significhi la miseria per bambini poverissimi (L’auto di Stoccolma), a quella di un adulterio sognato, ma non
portato a termine per pavidità e ingenuità (nel racconto dal significativo
titolo Una tragedia minore).
I segmenti, solo apparentemente slegati,
sono accomunati da un senso di tensione e da una coltre di malinconia; come
nella geometria proiettiva, questi racconti sono parallele, secondo altre
ottiche non comunicanti tra loro, che si incontrano però in un unico punto di
fuga, che consiste nell’osservazione di uno squarcio nella tela della realtà, dal
quale emana un respiro di grande letteratura.
I personaggi sono tutti giovani o bambini:
la vera disperazione non sta nell’imparare a conoscere la morte, ad
aspettarsela, a camminare insieme a lei, o al limite ad averne paura; ma,
all’opposto, nello svelare l’inganno della vita, nel capire che la mera
esistenza condanna a una costante ricerca di ogni cosa che sia impossibile da
trovare.
I giovani di Dagerman non godono però della
compassione dell’autore, o per lo meno questa è ben nascosta: il dolore è un
dato di fatto, è indissolubilmente legato alla vita, è aria, acqua, senza le
quali la vita non potrebbe essere.
Leggere Il viaggiatore può essere
difficile, perché difficile è la tensione emotiva tutta volta ad una
non-risoluzione, per lo stesso motivo per cui il lettore medio tende ad
immaginarsi comunque una fine, qualora essa non sia presente in un libro. Ma è questa
sicuramente una lettura profonda che ci apre il mondo letterario nel senso più
nobile del termine: la letteratura come gradino intellettuale da superare per
accrescere il nostro, di mondo, quello intimo.
Per definire il pensiero di Dagerman si deve
andare per esclusione nel panorama letterario: non è l’angoscia di Kafka, per
cui è la reductio ad absurdum dei meccanismi umani la causa dell’alienazione;
non è neanche il pessimismo leopardiano, da cui sono esclusi animali e bambini
(e già qui la differenza con Dagerman è palese), perché neanche con la
sospensione della riflessione è possibile un’illusa via di fuga; e i vinti de Il
viaggiatore non sono neanche quelli di Steinbeck, perché la disperazione
dell’autore americano è data da cause tutte interne a meccanismi
socioeconomici, in senso marxista, mentre per l’autore svedese la prevaricazione
sociale è solo una delle tante manifestazioni di angoscia umana.
Stig Dagerman nacque nel 1923 a Älvkarleby, un piccolo paesino della Svezia
centro-meridionale, vicino alla città universitaria di Uppsala.
Dagerman ebbe, a suo dire, un’infanzia serena, nonostante
l’abbandono della madre, ma una giovinezza segnata da lutti e dolorosi
distacchi, e scelse fin da subito di stare dalla parte degli ‘ultimi’. Suo è Autunno
tedesco, un coraggioso reportage del 1947 sulla Germania post-bellica, in
cui l’autore, con molto acume e delicatezza, analizza le condizioni degli
‘ultimi’ più detestati del mondo, i veramente ‘ultimi’, i tedeschi sconfitti.
Nella sua produzione, intensa per contenuto, ma
cronologicamente racchiusa nell’arco di soli cinque anni, lo scrittore svedese
indaga costantemente l’angoscia, la paura, e l’espiazione.
Dopo una profonda depressione, a soli 31 anni, Dagerman concluse
la sua vita a Stoccolma, chiudendosi nel garage e avvelenandosi con il
monossido di carbonio della sua auto.
Nell’ultimo racconto del libro, da cui
prende il nome l’intera raccolta, osserviamo una specie di lascito
testamentario, quasi un messaggio di addio dopo l’estremo saluto, espresso in
modo lapidario: “Qui riposa / uno scrittore svedese / caduto per niente /
sua colpa fu l’innocenza / dimenticatelo spesso”.
È l’innocenza, dunque, la colpa umana.
Dagerman ci fornisce qui una chiave di
lettura: la disperazione dell’infanzia, analizzata in tutte le sue
sfaccettature, deriverebbe quindi da una ‘colpa dell’innocenza’, una specie di
peccato originale in ottica laica, dovuto soltanto ed esclusivamente alla
propria presenza nel mondo.
Ed il tragico è pronto a riaffiorare in ogni
situazione, grande o piccola che sia, incombendo sulla nostra esistenza, senza
che sia possibile sfuggirvi.
Emblematico l’incipit di Una tragedia
minore: “Le grandi tragedie sono già tutte accadute da molto tempo.
Possiamo leggerle nei libri o vederle a teatro. Ai nostri giorni accadono
soltanto tragedie minori”. È chiaro che le tragedie epocali, analizzate poi su
base individuale, si proiettano nel mondo interiore dei singoli soggetti, ma
anche quando all’orizzonte non ci sono sconvolgimenti collettivi, la
quotidianità della vita umana ci pone continuamente di fronte a situazioni
cariche di angoscia, che non permettono mai il perfetto compimento della
coscienza umana. Minori, quindi, ma pur sempre tragedie.